giovedì 25 giugno 2009

“I film della nostra vita” di Mauro della Porta Raffo


“I film della nostra vita” di Mauro della Porta Raffo per Ares Edizioni contiene i ricordi cinematografici di 76 "leader d'opinione" appartenenti al mondo della cultura e dello spettacolo italiano. Attraverso questo affascinante volumetto scopriamo quale film ha condizionato positivamente gente come: Carlo Verdone, Angelo Branduardi, Marco Travaglio, Antonella Boralevi, etc. Come la maggior parte degli intervistati credo che non esista il “film della nostra vita”, perché sono molte le pellicole cinematografiche a cui dobbiamo qualcosa. Per quanto mi riguarda non potrei indicarne uno soltanto ma più di uno, ad esempio L’Attimo fuggente, che mi spinse a voler fare l’insegnate, Stand By me tratto da un racconto di Stephen King, oppure Il Principe delle maree, il nome di Susan Lowenstein riecheggia nella mia mente ogni qual volta passo sopra un ponte, e ancora l’incantevole mago di Oz, il toccante film di Federico Fellini La Strada con la dolce Giulietta Masina nei panni di Gelsomina vessata da Zampanò, o i capolavori di Woody Allen, di Kubrick, Spielberg, etc., che sono ben saldi nella mia memoria .
Ci sono cose che vanno al di là della semplice fruizione delle immagini in movimento; pensiamo ad alcune colonne sonore che spesso e volentieri ci riportano alle emozioni realmente vissute. Questo lavoro di Mauro della Porta Raffo è un libro che raggiunge dritto dritto il cuore del lettore. In ognuno dei ricordi dei personaggi intervistati riaffiora qualcosa che anche noi abbiamo condiviso. Penso ad esempio all’entusiasmo di Travaglio per C’era una volta in America , oppure le due versioni di Romeo e Giulietta, ossia quella canonica di Zeffirelli e quella più recente di Luhrmann rievocata dal bravissimo cantautore e musicista Branduardi, e molti altri ancora. In definitiva consiglio la lettura di questo libro non solo ai cinefili, ma ad ogni potenziale lettore che è riuscito ad estraniarsi dalle angosce della vita reale, grazie proprio alla magia profusa da una buia saletta cinematografica, in cui prendeva corpo il film della nostra vita.


Cristian Porcino

lunedì 22 giugno 2009

“Messaggi per la pace” a cura di Francesco de Notaris e Nicola Capone


“Messaggi per la pace” a cura di Francesco de Notaris e Nicola Capone (Edizioni La scuola di Pitagora) è un saggio molto utile che raccoglie alcuni interventi scritti da personalità e intellettuali di tutto il mondo. Il libro si apre con il celebre “Lamento della pace” di Erasmo da Rotterdam, per proseguire con Thomas Mann, Gandhi, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, don Milani, Giovanni Paolo II, etc. Iniziativa lodevole quella della casa editrice La scuola di Pitagora nell’assemblare alcuni celebri interventi sulla pace nel mondo. Il presente libro stimola il lettore sul significato più profondo della parola pace. Molto bella quanto commovente la lettera indirizzata ai cappellani militari e scritta da don Lorenzo Milani. Quanto si sente la mancanza di un uomo così profondo, in grado di parlare alle coscienze di ogni individuo. Oggi purtroppo esistono pochi preti in grado di farsi portavoce dei problemi di tutta la gente, inclusi i non cattolici. Don Milani guardava all’uomo e vedeva se stesso e non il religioso che era in lui. Papa Giovanni Paolo II invece nei due messaggi per la pace del 2002 e del 2005 seppe descrivere con grande acume l’evolversi di una nube oscura intorno al millennio da poco iniziato; pensiamo al terribile attentato terroristico delle torri gemelle di New York nel 2001. Questi messaggi oggi sembrano più vivi che mai; se pensiamo che proprio in queste ore in Iran la popolazione non può protestare democraticamente e pacificamente per i propri diritti, senza essere picchiata e uccisa come è accaduto a Neda Soltani, una ragazza sedicenne scesa in piazza accanto al padre per dire «no» ad ogni forma di regime. Non si può restare indifferenti al male che logora il mondo; poiché alla fine come detto da Calamandrei nessuno di noi potrà definirsi innocente. La Pace non è un’utopia ma un progetto concreto che gli uomini di ogni età, religione, razza, nazionalità possono concretizzare instaurando un civile dialogo fra le parti. Un dialogo che non deve vedere vincitori e vinti ma tutti, in egual misura, vittoriosi per aver contribuito a costruire la pace. Pertanto consiglio la lettura di questo libro, affinché possa crescere in ciascuno di noi un sempre più forte anelito di pace e speranza .


Cristian Porcino

giovedì 18 giugno 2009

“I misteri di Voyager” di Roberto Giacobbo


“I misteri di Voyager” a cura di Roberto Giacobbo per Giunti Editore raccoglie ampi reportages già trattati nell’omonimo programma televisivo. Giacobbo attraverso questo testo straordinario diviso in cinque sezioni affronta temi molto cari agli spettatori di Voyager ossia: l’enigma piramidi, l’isola di Pasqua, il mistero dei templari, Leonardo da Vinci, gli extra terrestri. Il presente libro è corredato da moltissime fotografie di ottima qualità per illustrare le spiegazioni e le notizie che lo staff di Voyager ha accuratamente raccolto in giro per il mondo. Questo libro scritto con un linguaggio semplice, preciso e accattivante riesce ad appassionare non soltanto gli adulti ma anche i piccini. Ad esempio gli studenti potranno accostarsi alla storia senza annoiarsi e senza arrovellarsi per l’incomprensibilità dei termini utilizzati. Del resto il programma condotto da Roberto Giacobbo è certamente un mezzo importantissimo di diffusione culturale fra gli adolescenti. Il pregio di questo volume sta proprio nell’esposizione delle teorie sostenute. Si analizzano difatti in un procedimento hegeliano: tesi, antitesi, per giungere infine ad una sintesi esaustiva. In verità non troveremo mai risposte certe agli enigmi irrisolti della storia; ma sicuramente potremo leggere le conclusioni più accreditate fornite dai maggiori esperti dei settori interessati. Gli autori dei servizi che sono oltre a Giacobbo, Giulio Di Martino, Stefano Varanelli, Rosamaria Latagliata riportano quanto scoperto senza lasciarsi andare a giudizi sommari o scoop sensazionalistici. Come scrive nell’introduzione del testo Giacobbo: “quello che ci aspetta è un cammino attraverso il tempo e lo spazio sulle tracce dei misteri più affascinanti del pianeta e non solo”.
Consiglio la lettura di questo libro agli appassionati del programma, ma anche a tutti coloro che vogliono apprendere qualcosa sulla storia passata e presente in maniera davvero coinvolgente ed elegante. Questi sono peraltro gli elementi che distinguono Voyager dagli altri programmi andati in onda nei nostri palinsesti. La passione e la curiosità non morbosa che Roberto Giacobbo dimostra durante la conduzione televisiva lo rendono agli occhi dei telespettatori un vero professionista del mistero. Non resta pertanto che incamminarci lungo le pagine di questo libro alla scoperta di antiche civiltà e culture, come dei novelli Indiana Jones.


Cristian Porcino

domenica 14 giugno 2009

“Vicoli vicoli” di Alli Traina


“Vicoli vicoli” di Alli Traina per Dario Flaccovio Editore è una guida intima ai monumenti umani della città di Palermo. Dopo i vari libri che si sono occupati dei misteri di alcune capitali europee e italiane, ecco finalmente giungere in libreria un volumetto molto affascinate che svela i segreti di Palermo. L’autrice è nata nel capoluogo siciliano e quindi dimostra di avere una certa agilità nel ripercorrere la storia dei luoghi più caratteristici di una città troppo spesso associata al fenomeno mafioso. Esiste anche un'altra Palermo, quella ad esempio cinica e disincantata dei film di Ciprì e Maresco, oppure quella descritta da Emma Dante nei suoi drammi teatrali. La Traina invece, con uno sguardo curioso e entusiasta, sia addentra all’interno della Vucciria descrivendo con ricchezza di particolari i suoni, le voci e gi odori di un mercato che ha attratto artisti come Renato Guttuso, che lo immortalò perfino in un suo celebre quadro. Grazie alla narrazione coinvolgente dell’autrice, il lettore sembra catapultarsi nei luoghi descritti. Così proseguiamo lungo il percorso che ci porta all’altro mercato importante di Palermo Ballarò; dove vi sono queste bancarelle sparse lungo il suo perimetro non indifferente, e alle prese con la vendita delle merci più disparate; dalla carne alla frutta, fino ai motorini. Si rimane impressionati e colpiti, da questa celebre lotteria che si svolge ogni giorno, “la riffa”, dopo che l’omino ha venduto tutti i biglietti disponibili. Il premio messo in palio consiste non in somme esose di denaro ma in beni alimentari. Si procede quindi lungo strade e vicoli che hanno visto transitare nella storia le vite di personaggi come Giuseppe Balsamo meglio noto come Cagliostro, o l’associazione occulta dei Beati Paoli, etc. Ma Palermo già nel 1500 ospitava al suo interno anche un quartiere ebraico, per non parlare poi dell’ oscuro tribunale dell’inquisizione: palazzo Steri. Questa città come scrive l’autrice nella prefazione : “ non ha una sola anima. Ne ha tante. Una per ogni quartiere storico, e anche di più. Tanti cuori pulsanti nascosti tra vicoli e chiesette, all’interno di piazze e mercati, battono ognuno a un ritmo diverso”. Difatti questa preziosa guida ha l’onere di raccontare le anime sconosciute dei palermitani; anche quelli che lo sono diventati dopo essere giunti dalle estremità più remote della terra, dall’Asia all’Africa, etc. In un intenso quanto suggestivo mix narrativo, Alli Traina mescola personaggi celebri di ieri e di oggi, alle consuete leggende e storie disseminate lungo la tradizione siciliana. Un libro da leggere assolutamente.


Cristian Porcino

sabato 13 giugno 2009

“Sotto le stelle di un film” di Pupi Avati


“Sotto le stelle di un film” di Pupi Avati per Il Margine Editore è una sorta di dizionario dell’anima del cineasta emiliano. Pupi Avati è uno dei pochi registi italiani ad avere inventato un filone cinematografico in grado di identificare i suoi lavori. Così se per i film di Federico Fellini si discute del tocco felliniano, per le opere di Pupi si può parlare del tocco avatiano del racconto cinematografico. In questo libro Avati si confessa a cuore aperto ad un pubblico che nel bene e nel male non è mai rimasto indifferente alle sue opere. Per quanto mi riguarda, ricordo con grande piacere alcuni suoi film come “La casa dalla finestre che ridono” (1976), un vero cult movie che ha condizionato il genere horror europeo; per non parlare dell’ottimo quanto raffinato “L’arcano incantatore” (1995); dove l’autore affronta tematiche esoteriche e religiose con grande sapienza. “I cavalieri che fecero l’impresa” (2000) fu un film coraggioso ma poco compreso e apprezzato dalla critica. Pupi Avati è stato e continua ancora ad essere il regista italiano più stimato all’estero. I suoi film non possedendo sterili etichette e non trattando quasi mai la stessa tematica, riescono a contagiare un pubblico davvero trasversale. Pupi Avati è autore di tutti i suoi soggetti che sono per l’appunto frutto dei suoi ricordi e della propria fantasia; ecco perché nell’insieme le sue opere filmografiche risultano originali. Il legame del regista con la religione cattolica lo si può in parte percepire se si guardano pellicole del calibro di “Magnificat” ( 1992) o il già citato “L’Arcano incantatore”. Il mistero ha sempre affascinato il giovane Pupi, che abbandonerà persino il posto di lavoro presso lo stabilimento Findus per iniziare una potenziale carriera come regista a Roma. L’impresa riuscì grazie al proprio talento e all’affetto e alla costanza della madre Ines; inoltre Pupi durante la sua attività ha sempre lavorato in simbiosi con il fratello Antonio. Quest’ultimo lo ha sempre affiancato nella produzione e nella realizzazione dei propri film. Difatti questo prolifico e ben collaudato duo, ha prodotto all’incirca un film all’anno; e proprio in questi giorni si è appreso che Pupi Avati inizierà a girare a breve la sua nuova pellicola: “Il figlio più piccolo”. Nel cast dovrebbero figurare Christian De Sica, Luca Zingaretti e Laura Morante. Consiglio pertanto la lettura di questo libro soprattutto per la sincerità e liricità che Avati dimostra nel tratteggiare episodi vissuti o soltanto immaginati, ma ben saldi nella sua memoria. Un libro di ricordi sincero e quasi masi tedioso o patetico.


Cristian Porcino

lunedì 8 giugno 2009

“Il vangelo della Maddalena” di David Niall Wilson


“Il vangelo della Maddalena” di David Niall Wilson per Gargoyle Edizioni è un romanzo surreale e innovativo, incentrato sulla figura evangelica di Maria di Magdala. Povera donna quest’ultima, poiché qualora sia realmente esistita è stata bistrattata un po’ da tutti; a cominciare dagli evangelisti ufficiali che la ritrassero come una puttana; fino ad arrivare a Wilson che la descrive come una creatura luciferina nonché vampira. Wilson racconta una sorta di vangelo scritto in prima persona proprio da Maria Maddalena per spiegarci, l’infinito amore che Gesù nutriva per ogni creatura in cerca di pace e speranza. Scorrendo le note biografiche dello scrittore americano possiamo capire forse, il perché di determinate riflessioni. L’ aver frequentato il seminario, ed esserne uscito con una cocente delusione; lo si riscontra anche nel finale del libro. Il romanzo è molto coinvolgente lo si legge con piacere; anche se a partire dal capitolo cinque la storia prende una piega un po’ troppo paradossale e in certi momenti (pochi a dire il vero), perde il suo ritmo, la sua linfa vitale. La prosa di Wilson è davvero eccellente, romantica, vigorosa e accattivante. Questa poesia descrittiva però viene sprecata nell’incedere verso situazioni che richiamano alla mente i romanzi di Anne Rice; e come ricordato nella prefazione da Francesco Dimitri, inscrivono il presente libro nella categoria «popcorn e vangelo». Filone a cui appartengono anche le opere di Dan Brown “Angeli e demoni” e “Il codice da Vinci” pubblicate successivamente all’opera di Wilson che vide la luce negli Usa nel 1999. Resta il fatto che “Il vangelo della Maddalena” segnerà una sorta di apripista a racconti dello stesso genere; pensiamo a quanto scritto da Jeffrey Archer e Francis Moloney ne “Il vangelo secondo Giuda” (2007). In entrambi i volumi, ci si rifà ad un ipotetico testo apocrifo scritto da Giuda o dal figlio Beniamino. Wilson è autore di un romanzo atipico, visto che ci troviamo dinanzi non ad un horror ma ad un vero dark fantasy molto audace e ispirato. Scrivere anche in chiave fantastica di Gesù ed immergere la sua figura in una storia vampiresca dimostra o la scelleratezza del suo autore; oppure una totale passione per quanto raccontato dalla religione cristiana nei suoi testi basilari. Nel 1929 David Herbert Lawrence nel racconto “L’uomo che era morto”, pur non citando mai il nome del Cristo si riferiva chiaramente alla sua persona. Lawrence parlava di un uomo risorto dalla morte che conoscerà una sacerdotessa di Iside con cui vivrà per il resto della sua vita. Ritornando al libro di Wilson, bisogna accostarsi a questo testo con una mentalità aperta e non bigotta, perché la storia non ha alcun intento blasfemo. Trovo certamente più irriverente e dissacrante l’appropriazione indebita delle parole di Gesù compiuta dai suoi cosiddetti “vicari terreni”, piuttosto che alcune affermazioni scritte da Wilson. “Il vangelo della Maddalena” non ha le pretese ideologiche e letterarie di un piccolo capolavoro come quello di Lawrence, ma certamente, non lascerà scontenti gli amanti del genere. Faccio notare che il Publisher’s Weekly ha definito questa storia la più originale saga dei vampiri degli ultimi anni. Infine desidero segnalare l’ottima traduzione realizzata da Salvatore Proietti.


Cristian Porcino

domenica 7 giugno 2009

“Nannarella” di Giancarlo Governi


“Nannarella. Il romanzo di Anna Magnani” di Giancarlo Governi edito da Minimum fax racconta la vita abbastanza movimentata della celebre attrice romana. Giancarlo Governi è uno dei maggiori esperti del mondo cinematografico e televisivo, nonché conduttore e ideatore di numerose trasmissioni inerenti la ricostruzione delle carriere di attori e registi internazionali.
Anna Magnani fu la prima vera diva italiana, con la sua aria così altezzosa e popolana, riuscì attraverso le sue interpretazioni a catturare non solo il pubblico italiano ma anche quello americano. Il talento e l’aggressività che la Magnani mostrava sul set, l’accompagnò in gran parte della sua vita. Il libro prende proprio inizio dal meraviglioso legame di Anna con la nonna, passando poi in rassegna il rapporto abbastanza idealizzato con la madre che viveva ad Alessandria d’Egitto con un nuovo marito ed un’altra figlia. Anna era portata per la musica e fu proprio frequentando l’accademia di S. Cecilia che conobbe l’attore Paolo Stoppa che la introdusse nel mondo della recitazione teatrale. Da quel momento per Nannarella, come venne affettuosamente soprannominata la Magnani, iniziò una sfavillante carriera teatrale che culminerà con la sua ascesa nel mondo del cinema. Il suo primo marito Goffredo Alessandrini le disse che non era portata per il cinema perché non fotogenica. Quanto poco capì Alessandrini del fascino ammaliatore che Anna promanava dal grande schermo. Difatti non ho mai compreso perché ci si ostina a imporre alla Magnani l’assurda etichetta di «brutta che piace»?! Quando si parla di star internazionali come Joan Crawford o Bette Davis le si definiscono belle, anche se nessuna delle due lo fu mai. La Crawford era anche lei affascinante e seducente, ma bella non direi; pensiamo ad esempio al suo volto dai lineamenti così marcati. Della Davis che dire; grande attrice ma a parer mio davvero sgraziata. Fortunatamente non soltanto le belle hanno successo, pensiamo a Barbra Streisand cantante e attrice straordinaria che ha sbaragliato donne molto più dotate esteticamente di lei. Anna Magnani non fu certamente Lana Turner o Rita Hayworth, ma la passione e il talento non indifferente che alimentava la sua carriera, hanno oscurato attrici molto più quotate e affermate. Quest’ultime le invidiarono persino il carisma e la sua grande immedesimazione nei personaggi. Nessuna poté mai eguagliare la tragica epicità del personaggio femminile interpretato da Anna in “Roma città Aperta”, oppure ne “La Rosa tatuata” che le valse peraltro un preziosissimo oscar. Pertanto consiglio a tutti la lettura di questo libro di Giancarlo Governi, perché attraverso il racconto e gli aneddoti delle persone che circondarono la Magnani, ne viene fuori un bellissimo ritratto non solo dell’attrice ma della donna che ogni italiano di ieri e di oggi ha sempre ammirato.


Cristian Porcino

giovedì 4 giugno 2009

“Dio è morto” di Antonio De Crescenzo


“Dio è morto” di Antonio De Crescenzo per Il Rovescio Editore è un agile pamphlet sull’origine e la propagazione del fenomeno religioso nel mondo.
Il libro di De Crescenzo è chiaramente rivolto ad ogni persona che voglia approfondire il discorso su dio e dintorni. Il suo libero pensiero rende già di per sé interessante questo dialogo fra autore e lettore. È sempre meglio accostarsi alla lettura di libri di tale tipologia, piuttosto che ai soliti bestsellers scritti o compilati dalle “autorevoli” firme del giornalismo italiano. La religione intesa come organizzazione in apposite confessioni istituzionalizzate è certamente un male assoluto. È importante precisare che la spiritualità è ben diversa dalla religiosità; l’uomo difatti è una creatura spirituale. Spesso però i due termini si confondono e si sovrappongono dando adito ad equivoci assurdi.
Nietzsche è stato il più grande teologo del cristianesimo; perché grazie alla sua critica “avvelenata” rivolta ad ogni forma di corporazione e istituzione religiosa, ha consegnato al mondo un messaggio importante, ovvero «un solo cristiano degno di tale nome è esistito; ed è morto sulla croce». Attraverso ciò si può ben capire la motivazione che ha spinto la chiesa cattolica ad odiare la sua filosofia. Il pensiero nicciano restituiva all’uomo ciò che era dell’uomo, ossia la libertà di vivere in piena autonomia con il mondo; senza intermediari. Sostenere che «Dio è morto» significa accettare che la nostra ideologia basata sull’esistenza ultraterrena di un essere onnipotente, è definitivamente trapassata. Qui sulla terra esistiamo solo noi, e proprio per tale motivo dobbiamo occuparci della natura vivendo e godendo appieno dei suoi frutti. In verità Nietzsche non si scagliò mai contro la figura di Gesù, ma con quel cristianesimo che se ne fece indegnamente portavoce. De Crescenzo in apertura del libro ci dice che prima era comunista e credente, ma con lo scorrere del tempo ha preso atto della fine, di determinate certezze. È evidente che la religione è causa non di afflato universale ma di disordine. Ad esempio Gerusalemme è una città divisa e lacerata da conflitti che la reclamano come terra delle tre più importanti religioni monoteiste. Ognuna si contende qualche pezzo. Ma se la terra è stata creata da Dio allora ogni luogo dovrebbe essere definito “santo”!. In nome di Dio si sono consumati flagelli e carneficine degne più che di un santuario, di un mattatoio. Sono profondamente convinto che una religiosità responsabile è sempre realizzabile; purché la gente si accorga che l’adorazione del divino deve restare un fattore privato e non ostentato come sinonimo di potere e dominio. Nessuno ha in mano la salvezza, né tanto meno la verità che non esiste. I “sepolcri imbiancati” scovati da Gesù circondano sempre più le nostre vite; e bisogna pertanto riconoscere questi profeti di sventura, che si aggirano sia per vie catodiche che per vie cittadine.
Il libro di De Crescenzo non ha l’intento di offendere chi crede, ma smontare e attaccare le pretese di chi impone in maniera coercitiva la propria visione, (piuttosto personale e molto discutibile), di Dio. Un pregio di questo libro è proprio la freschezza di un pensiero non allineato a nessuna vecchia dottrina. Concordo con l’autore quando parla del sorgere di nuove forme di cristianesimo, più vicine all’uomo e più distanti dalle gerarchie vaticane. Perché ciò si realizzi, l’uomo dovrà impegnarsi tanto affinché le cose alla fine vadano come auspicato.
Nell'essere cittadino dell'universo consiste la vera libertà dell' uomo, e la sua emancipazione dalla schiavitù delle meschine speranze e timori” Bertrand Russel


Cristian Porcino

martedì 2 giugno 2009

“La ragazza scomparsa” di Yoram Kaniuk


“La ragazza scomparsa” di Yoram Kaniuk per Cargo Edizioni è un libro che si legge tutto d’un fiato. Il romanzo è scritto da uno dei pochissimi autori contemporanei in grado di raccontare il conflitto arabo- israeliano, senza adoperare mai un linguaggio retorico e di parte. Kaniuk, scrittore coltissimo e pluri premiato ha già all’attivo diciassette romanzi tradotti in più di venticinque lingue. La protagonista femminile de “La ragazza scomparsa” è un personaggio cinico, anaffettivo, alla ricerca perenne di se stessa. Ha pochi amici, vive con un padre fanatico che ha contribuito in gioventù alla nascita dello Stato d’Israele (14 maggio 1948); mentre la madre è una donna provata da precedenti esperienze matrimoniali e da diversi lutti. La ragazza pertanto deciderà di scomparire dalla vita della sua famiglia inscenando la propria morte. Questo thriller avvincente regala al lettore inaspettate sorprese. Un ottimo romanzo ed un esempio tangibile di un grande autore come Kaniuk, rimasto fedele alla propria tradizione culturale, senza però rinunciare a smantellare certi luoghi comuni; che solitamente ritraggono gli arabi, come dei mostri senza alcuna parvenza di umanità. Difatti il romanzo diventa un vero e proprio teatro dell’assurdo, dove situazioni rocambolesche e impossibili assumono, quei contorni di apparente normalità tanto care a Kafka. Anche la descrizione di certe scene alquanto disgustose e cruente, come gli scempi compiuti dai soldati in guerra, sembrano far parte tutto di una logica indifferente e sprezzante del genere umano. È come se Kaniuk dicesse al lettore che a causa delle continue immagini di dolore e sterminio che vengono proiettate in tv, l’uomo contemporaneo sembra quasi essersi assuefatto al dolore e alla tragedia. In alcune pagine si tratteggia con grande maestria descrittiva il pregiudizio atavico che spinge le due popolazioni contrapposte, ebrei e arabi, all’odio reciproco. Yoram Kaniuk utilizza un umorismo molto yiddish, e al contempo ne prende debitamente le distanze utilizzando il registro narrativo di certi autori americani. Infine come lo ha giustamente definito il giornale francese “Le Monde” «Kaniuk deve essere considerato uno dei più grandi autori della nostra epoca». Da leggere assolutamente.


Cristian Porcino

lunedì 1 giugno 2009

“L’Altro Che”. Intervista a Mario La Ferla


“L’Altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante” di Mario La Ferla per Nuovi Equilibri Edizioni, è un inchiesta giornalistica alla vecchia maniera; incentrata proprio sull’ interesse mostrato dalla destra nazionale ed europea nei confronti del Che. La sinistra che avrebbe dovuto omaggiarlo o ricordarlo; proprio durante il 40° anniversario della sua morte ignorò totalmente tale ricorrenza. Nel 2007 la sinistra italiana era troppo presa a risolvere le beghe di partito del governo Prodi. Nello schieramento opposto invece, qualcuno si prodigava a scrivere lettere di rimembranze e di stima al comandante Guevara. La Ferla giornalista fin troppo scomodo per via delle sue indagini sui diversi misteri e intrighi italiani e internazionali, analizza senza alcuna remora o riverenza, la storia passata e presente dei cosiddetti fascisti rossi, o giovani nazional rivoluzionari.
Ecco l’intervista da me realizzata a Mario La Ferla:

1) Come è venuto a conoscenza della passione e della stima professata dalla destra nei confronti di Ernesto Che Guevara?

« La passione della destra per il Che è di vecchia data, ormai fa parte della cronaca e della storia politica italiana del Novecento. Quindi ne sono venuto a conoscenza, come dire, in presa diretta, soprattutto svolgendo il mio lavoro di inviato all’ “Espresso” dove sono rimasto per trent’anni. Ricordo che la prima notizia dell’amore a destra per Guevara la appresi direttamente da alcuni autori del Bagaglino, il cabaret romano rigorosamente di destra, i quali erano tutti ammiratori del Che. Quando alcuni di essi furono informati della morte del guerrigliero, il 9 ottobre 1967, decisero di dovergli rendere subito un omaggio. Pierfrancesco Pingitore insieme con il maestro Dimitri Gribanovski compose un mese dopo una ballata, “Addio Che”, che venne poi cantata da Gabriella Ferri. La ballata addirittura apriva e chiudeva, al massimo volume, i comizi di Pino Rauti durante la campagna elettorale per le elezioni del 1968. Poi ci fu, appunto, il ’68. Il primo marzo di quell’anno, a Roma, a Valle Giulia, molti ragazzi di destra presero parte alle proteste che sfociarono in violenti scontri con la polizia. Fu proprio in quell’occasione, deplorata da Pier Paolo Pasolini che si schierò dalla parte dei poliziotti, figli di veri proletari, che i rappresentanti della destra radicale sbandieravano le immagini del Che. Tra la fine del ’67 e l’inizio del ’69, lo sceneggiatore Adriano Bolzoni, chiamato il “ragazzo di Salò, per la sua adesione alla Repubblica Sociale, scrisse un libro sul Che che trasformò subito in un copione per un film che fu girato nella primavera del ’68. Erano il primo libro e il primo film dedicati al Che, primi nel mondo. Poi, a Parigi, fu pubblicato il libro “Une passion pour Che Guevara”, scritto da Jean Cau, ex intellettuale di sinistra e segretario di Jean-Paul Sartre, passato poi a destra a causa di dissidi per la questione algerina. Jean Cau, nel suo libro, si rivolgeva direttamente al Che, facendone alla fine un ritratto eroico. Lo paragonò addirittura a Gesù Cristo: il libro ebbe un grande successo, non solo tra i lettori di destra. Comunque contribuì a diffondere ancora di più a destra il mito di Ernesto Guevara.
Posso aggiungere che la scintilla per il Che si era già accesa ancora prima della morte di Guevara, esattamente verso la metà degli anni 60. Lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, celebre medievalista, allora giovane iscritto al Movimento sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart. Addirittura il primo omaggio al Che avvenne nel 1961, a Firenze, in occasione dell’occupazione dell’università da parte del Fuan. E l’ammissione di Guevara tra le file dei giovani contestatori di destra venne ufficializzata nel giugno 1965, durante il congresso provinciale del Msi con l’uscita dei giovani amici di Cardini che nel partito ci stavano ormai stretti. Posso citare altri ricordi di casi che hanno contribuito a fare del Che il simbolo della destra movimentista, e che ho via via acquisito durante il mio lavoro di giornalista. Per esempio, la rivista “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi, poi il giornale della federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale di Salò “Azimut” e il foglio giovanile “Controcorrente”. E dopo l’ideologo Jean Thiriart, a consolidare l’ammirazione per il Che contribuirono gli scritti e i discorsi di Alain de Benoist, capofila della “Nouvelle Droite”. Comunque è stato il ’68 a rivelare l’amore per il Che, in maniera vistosa e lampante, e a confermare il culto per il guerrigliero che rappresentava il mito ideale: la figura del perdente coniugata a quella dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico. Il successo del Che presso i giovani di destra è via via aumentato grazie all’intervento di scrittori e intellettuali, non soltanto di destra (basta citare l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana autore di “I ragazzi del Che”), che hanno accostato Ernesto Guevara a personaggi famosi che facevano già parte dell’immaginario collettivo della destra ribelle. Per esemio: Lawrence d’Arabia, i personaggi di Salgari, Giuseppe Garibaldi, Zorro e Don Chisciotte, insomma la stirpe dei futuristi guidati da Marinetti, e poi Giovanni Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinad Céline, Ernst Junger e di Giuseppe Prezzolini


2) Nel suo libro lei fa riferimento all’immagine del Che comparata, subito dopo la morte, alla figura messianica e salvifica del Cristo. Da questa simbologia scaturì in America Latina la “teoria della liberazione”. Alcuni preti e teologici cattolici se ne fecero promotori; ma fu fermamente respinta da papa Giovanni Paolo II. Può spiegarci perché tale insegnamento fu decisamente combattuto dalle più alte gerarchie vaticane?

« Nonostante il richiamo ai dettami del Concilio Vaticano II, la maggior parte dei sacerdoti sudamericani che avevano dato vita al concetto di “teoria della liberazione” si era schierata apertamente e provocatoriamente a favore della lotta armata. Un anno e mezzo prima della morte del Che, il sacerdote colombiano Camilo Torres era stato ucciso in combattimento. Fin dagli anni 60 Torres aveva abbracciato la militanza politica e guerrigliera e per questo fu ritenuto “el ejemplo mas alto de la lucha cristiana y revolucionaria en America Latina”, che alla pari di Guevara sosteneva che “el deber de todo cristiano es ser revolucionario”. Nel comunicato stampa del giugno 1965, Camilo Torres spiegava le ragioni per cui aveva chiesto all’arcivescovo di Bogotà il suo esonero dagli obblighi inerenti la sua condizione di sacerdote (d’altra parte gli era già stato proibito di celebrare la messa sia in pubblico che in privato): “Ritengo che la lotta rivoluzionaria sia una lotta cristiana e sacerdotale. Solamente grazie a questa, nelle circostanze concrete della nostra patria, possiamo realizzare l’amore che gli uomini devono avere per il prossimo”. Il passaggio nella mediazione ideologica tra l’eredità di Torres e quella di Guevara fu attuato da Juan Garcìa Ellorio, argentino, cresciuto in un seminario di gesuiti. Proprio partendo dall’insegnamento del Concilio Vaticano II, Ellorio –dopo aver fondato la rivista “Cristianismo y Revoluciòn”- elaborò i piani teorico-politici e organizzativi per preparare, sulla scia di Torres, la lotta armata in Argentina. Convinto che la rivoluzione non potesse imporsi senza la “violencia armada”, dopo una serie di operazioni militari eseguite attraverso il Comando Camilo Torres e altri commandos, Ellorio morì in un misterioso attentato nel gennaio 1970. Tutto questo era più che sufficiente per mettere in allarme il Vaticano, che non poteva restare indifferente di fronte a un fenomeno di così vaste proporzioni che si stava diffondendo nell’America Latina, contro ogni fondamentale principio propagandato dal cristianesimo. E l’allarme in Vaticano diventò ancora più assillante quando nel movimento rivoluzionario iniziato da Camilo Torres erano via via confluiti sacerdoti che si ispiravano alla rivoluzione popolare del presidente argentino Juan Domingo Peròn. Questa ‘esplosiva’ confluenza di preti peronisti nel movimento dei preti ribelli fedeli all’insegnamento di Torres e di Ellorio, venne ufficializzata in documento detto di Torres e di impegno, scritto nel Natale del 1968. I preti cristiani e rivoluzionari sostenevano che “per la nostra coscienza di cristiani è giunta, con drammatica urgenza, l’ora dell’azione che dovrà essere portata a termine con l’audacia dello spirito e l’equilibrio di Dio, denunciando energicamente gli abusi e le conseguenze ingiuste delle eccessive disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli…”. Il Vaticano reagì energicamente. Di ispirazione peronista era padre Mugica, il quale ebbe un ruolo molto importante nel tentare una conciliazione tra le due posizioni: quella del Vaticano e quella dei preti rivoluzionari, insomma i metodi pacifici e il ricorso alle armi. Padre Mugica aveva dato vita all’organizzazione dei “Sacerdotes para il Tercer Mundo” schierandosi al fianco dei deboli e degli oppressi, ma allo stesso tempo sosteneva che fosse impossibile per lui cristiano aderire alla lotta armata, affermando che la violenza era incompatibile con il messaggio evangelico, e dichiarando che era disposto a dare la vita per la rivoluzione ma non a uccidere per essa. Nel maggio 1974 fu ucciso in un attentato attribuito a una organizzazione anticomunista argentina. Intanto, nell’aprile 1972, i cristiani per il socialismo si erano riuniti nel primo incontro continentale di Santiago del Cile e avevano chiuso il loro documento ufficiale citando un testo di Guevara, che iniziava così: “I cristiani devono optare definitivamente per la rivoluzione, in modo particolare nel nostro continente, dove tanto importante è la fede cristiana tra le masse popolari; ma i cristiani non possono pretendere di imporre nella lotta rivoluzionaria i loro dogmi né di fare proselitismo per lo loro chiese; devono venire senza la pretesa di evangelizzare i marxisti e senza la codardia di occultare la propria fede per assimilarsi a loro…”. Questo, per il Vaticano, era davvero considerato insopportabile. In sostanza i preti rivoluzionari sudamericani dovevano abdicare ai loro principi, alla propria fede e allearsi strategicamente ai marxisti per affiancarli nella lotta armata. Ecco perché la “teoria della liberazione” fu duramente contrastata da papa Giovanni Paolo II. »

3) Secondo lei come verrà accolta la sua inchiesta dalle frange estremiste che militano a destra? Accetteranno o smentiranno categoricamente quanto da Lei confutato?

« Finora non ci sono state confutazioni o critiche al contenute di “L’altro Che” da parte dei gruppi della destra radicale. E devo aggiungere che conferme sono arrivate anche dalla destra cosiddetta ufficiale: infatti “Il Secolo d’Italia”, organo di quella che era fino a poco tempo fa Alleanza Nazionale, ha dedicato al libro ampio spazio. Molti elogi, soltanto un appunto: proprio per mettere in risalto che io ho sempre fatto riferimento all’estrema destra per quanto riguarda la passione per il Che, quando invece anche la destra istituzionale ha apprezzato il romanticismo e l’altruismo di Guevara. Comunque so di certo che a destra non tutti condividono questa passione: ci sono molti camerati che dissentono, giudicando il Che un marxista che voleva imporre la dottrina e la politica di Mosca nell’America Latina. Però sono una minoranza che in occasione dell’uscita del libro non hanno manifestato dissenso nelle discussioni che si sono accese sui blog dei siti della destra radicale. Per la verità la stragrande maggioranza della destra movimentista ha accolto il libro con molto favore, giudicandolo complessivamente rispondente alla realtà dei fatti. »

4) Perché tanta ritrosia nel riconoscere ufficialmente un’ammirazione per l’impegno sociale di Ernesto Che Guevara? È soltanto una questione di schieramento politico, o vi è dell’altro?

« E’ una questione politica. Storicamente Ernesto Guevara appartiene alla sinistra internazionale. Se ne “impossessarono” gli studenti delle università californiane quando iniziarono la contestazione anticipando quella europea. L’ufficializzazione del Che di sinistra avvenne durante il maggio parigino del ’68. Anche se qualche anno prima alcuni esponenti della destra italiana e francese avevano mostrato interesse e ammirazione per il Che, la sinistra non ha mai voluto riconoscere un’appartenenza diversa del guerrigliero argentino. Tanto è vero che “L’altro Che” è stato praticamente ignorato dalla stampa progressista che si è trovata di fronte a un grosso rebus: se parliamo del libro, sdoganiamo i fascisti? Questo è sempre stato l’assillo della sinistra (e io lo so bene), basti vedere l’esempio che arriva dall’accoglienza fatta puntualmente ai libri di Gianpaolo Pansa (anche lui –guarda caso- arriva dalle stanze dell’ “Espresso”), il quale viene accusato di essere un revisionista. Anche se da qualche anno la sinistra, anche quella italiana, ha abbandonato il Che al suo destino (ormai non appare più nemmeno una bandiera con la faccia del Che nelle manifestazioni di antagonisti e di no-global), non accetta però che qualche altra parte, soprattutto a destra, si appropri del mito del Che. »

5) Il suo libro oltre ad essere ben scritto, è molto ben documentato; quanto tempo ha impiegato per raccogliere il materiale utile per la realizzazione della sua inchiesta?

« I miei libri, ormai sono sette scritti negli ultimi sette anni, hanno la cadenza e la sostanza di inchieste giornalistiche. Quindi mi è assolutamente indispensabile una documentazione ampia e certa. Per raccogliere quella relativa al Che amato a destra, c’è voluto molto tempo: almeno due anni. Non molto, se si pensa che per mettere insieme la documentazione, soprattutto di fonte americana, necessaria per scrivere “Compagna Marilyn” ho impiegato complessivamente vent’anni! Nello stesso tempo ho portato avanti la lavorazione di altri libri, come, per esempio, “La biga rapita”, dove ho dovuto ricostruire –tanto per fare un esempio- l’intero tragitto che i trafugatori hanno fatto per trasferire l’unico esemplare di carro etrusco esistente al mondo dai monti Sibillini, in Umbria, fino ai sotterranei del Metropolitan Museum di New York. E parliamo dell’anno 1902. »

6) Lei non è estraneo alle inchieste cosiddette scomode; ricordiamo una su tutte quella racchiusa nel suo libro “Compagna Marilyn”, dedicato alla misteriosa scomparsa dell’attrice americana. Si sta preparando a sondare nuovi casi irrisolti ?

« E’ vero, sono sempre stato attratto dai casi misteriosi, dove se non c’è almeno una morte oscura, ci sono però circostanze mai chiarite di furti clamorosi, sequestri di persona, sparizioni mai risolte, oppure ricchezze improvvise e scalate clamorose. Insomma, laddove c’è ancora un aspetto “misterioso” di fatti e avvenimenti, per me c’è la tentazione di vederci chiaro. Perché, per l’esperienza trentennale di inviato dell’ “Espresso”, ho ormai acquisito questa certezza: anche i fatti più semplici nascondo lati inquietanti, o per lo meno enigmatici. Di recente un giornale inglese ha pubblicato la classifica dei dieci misteri più affascinanti del mondo (c’è anche la morte della Monroe). Sono tentato di occuparmi di quello che riguarda la sparizione del musicista americano Glenn Miller nella Parigi appena liberata dai tedeschi; un mistero affascinante: il celebre direttore d’orchestra si esibiva in un locale poco lontano dal suo albergo, una sera, come faceva sempre, salutò la sua orchestra e si avviò a piedi verso l’hotel. In quel breve tratto di strada, sparì e da allora si sono perse le sue tracce. Poi ci sono le morti “incerte” di personaggi famosi. Sono morti di morte naturale o sono stati uccisi? L’elenco è abbastanza lungo, quindi ne cito solo alcuni: Bertolt Brecht, Egon Schiele, Garcia Lorca, il quinto Rolling Stones, Syd Barret, Nina Kandinsky, Ken Lay il patron della Euron. Ma c’è un personaggio che non è legato né a morti misteriose né ad altro di oscuro. Però nasconde un “mistero”. Si tratta di un italiano, Giancarlo Parretti. Faceva il cameriere in un ristorante per turisti a Orvieto. Dopo pochi anni sedeva sulla poltrona di presidente e maggiore azionista della Metro Goldwym Mayer, una delle più prestigiose major di Hollywood. Mi sono occupato a lungo e a fondo di questo incredibile personaggio (che ora è tornato a vivere a Orvieto) per “L’Espresso”: molti misteri sono riuscito a svelarli, ma quello principale ancora no: come ha fatto ad arrivare nel cuore di Hollywood? Sinceramente non so ancora quale argomento sceglierò, magari uno completamente diverso da quelli che ho elencato. Di sicuro ci sarà qualche lato oscuro da chiarire. »



intervista a cura di: Cristian Porcino